Nei momenti difficili spesso ci conosciamo meglio,
scopriamo voragini, ma anche e soprattutto risorse. Risorse luminose.
Avevo
visto tutto questo all’opera nei miei pazienti, avevo constatato il
meraviglioso meccanismo per cui una persona inizia un percorso, tocca il fondo,
e poi inizia a risalire come non avrebbe mai fatto senza la spinta
destrutturante della crisi, la voglia di guardarsi e di mettere le mani in
pasta che a volte solo le difficoltà e le rotture stimolano. Ora vedevo tutto
questo anche in me.
E potersi conoscere di più proprio nei momenti difficili non è il solo messaggio del vaso rotto, per poterlo cogliere occorreva io guardassi davvero e questo ci porta a un altro aspetto importante: quando stiamo male è il momento di tenere gli occhi ben aperti, ampliare la nostra percezione, resistere alla tentazione di chiudere gli occhi e smettere di ascoltarci. Anestetizzarci evitando di aprire gli occhi non accorcerà i tempi del dolore, nè accelererà la soluzione della crisi. Anzi. Ognuno di noi ha sperimentato che è caso mai vero il contrario.
Una volta guardato lo spiraglio su di noi aperto dalle difficoltà, si apre il momento del "Cosa me ne faccio di questa cosa che ho scoperto su me e il mondo intorno a me affrontando la crisi? Come mi può aiutare a stare meglio? Come mi può aiutare a rimettermi in piedi?". E qui si apre la ricostruzione, la ricomposizione: ci rimettiamo insieme, cerchiamo di farlo nel modo migliore e questa ricomposizione ci può dare soddisfazione e forza. E allora kintsugi!
E potersi conoscere di più proprio nei momenti difficili non è il solo messaggio del vaso rotto, per poterlo cogliere occorreva io guardassi davvero e questo ci porta a un altro aspetto importante: quando stiamo male è il momento di tenere gli occhi ben aperti, ampliare la nostra percezione, resistere alla tentazione di chiudere gli occhi e smettere di ascoltarci. Anestetizzarci evitando di aprire gli occhi non accorcerà i tempi del dolore, nè accelererà la soluzione della crisi. Anzi. Ognuno di noi ha sperimentato che è caso mai vero il contrario.
Una volta guardato lo spiraglio su di noi aperto dalle difficoltà, si apre il momento del "Cosa me ne faccio di questa cosa che ho scoperto su me e il mondo intorno a me affrontando la crisi? Come mi può aiutare a stare meglio? Come mi può aiutare a rimettermi in piedi?". E qui si apre la ricostruzione, la ricomposizione: ci rimettiamo insieme, cerchiamo di farlo nel modo migliore e questa ricomposizione ci può dare soddisfazione e forza. E allora kintsugi!
Dare valore alla ricomposizione. |
La loro prospettiva è diversa, esaltano la
ricomposizione e nel farlo valorizzano la crepa riempiendo la frattura con
dell’oro. Pensano che quando qualcosa ha subito una ferita e ha una storia,
diventa più bello. Questa tecnica è chiamata "Kintsugi", che significa "riparare con l'oro" ed è una pratica che nasce dall'idea che dall'imperfezione
e da una rottura possa nascere una forma ancora maggiore di perfezione e pienezza interiore. Oro, metallo prezioso e ben visibile, al posto di colla, materiale adesivo trasparente.
La differenza è tutto qui: nascondere l’integrità perduta o esaltare la
storia della ricomposizione?
E prima ancora il punto è: mostrare
la rottura, se non altro a noi stessi, accettandola fino in fondo, o celare la
rottura, le imperfezioni agli altri e magari anche a chi vediamo allo specchio
ogni mattina?
Si tratta di scegliere: fare i conti con la rottura, la crisi esistenziale, “gli urti della
vita” , prendendone atto fino in fondo per poi partire per la
ricomposizione convinti del valore del “ricostruirsi”, o cercare di nascondere la
rottura, non guardare quello che non va e abilmente evitare che gli altri
ci facciano caso?
Scegliere l’una o l’altra via implica un atteggiamento ben
diverso nei confronti della ricomposizione: nel primo caso ripararsi è una conquista che dà soddisfazione profonda, é come dire “ho vissuto, ho sofferto, mi
sono rimesso in piedi” – le crepe del vaso rotto non le riempiremo forse d’oro,
metodo un po’ dispendioso, ma guarderemo con soddisfazione il nostro vaso-sè rimesso
insieme, ricordando come si è rotto e soprattutto come lo abbiamo riparato. Si tratta di un’idea
ben lontana da quella che guida molte persone ferite, che
attraversano momenti difficili e si vivono interiormente come rotti e giorno
per giorno recitano la parte di quelli che stanno bene, che non hanno nessun problema
e “sono come tutti gli altri”.
Spesso facciamo un po' fatica a far pace con le crepe: la
nostra cultura ci ha insegnato che esistono soltanto due opzioni: intatto o
rotto. E se è rotto, la colpa è di qualcuno o va comunque addossata a qualcuno. Valorizzare la ricomposizione
implica sia necessario ammettere e vivere appieno la rottura. Il pensiero
orientale, in questo senso, integra il nostro, ci suggerisce che la vita è integrità e
rottura insieme, ri-composizione costante e infinita. In fondo tutti sappiamo
che l’inverno è necessario alla primavera, non possiamo ricostruirci se non
partendo dall’accettazione del fatto che a volte qualcosa nella nostra vita è
crollato, è scomparso, perchè non poteva essere eterno, perchè siamo cambiati o perchè non era forse mai stato costruito in modo solido.
Il
dolore è parte della vita. A volte una parte importante, a volte meno, ma in
entrambi i casi è una parte del puzzle, del grande gioco della vita. Il dolore
solitamente fa due cose: ci ricorda che siamo vivi e quando passa, se lo abbiamo affrontando senza chiudere gli occhi, ci ritroviamo un
po' cambiati, più saggi, più consapevoli. E quanto tutto ciò avviene ci amplia lo sguardo sulla realtà.
Il
senso di ascoltarci nei momenti difficili, eventualmente col supporto di un esperto, è quello di far sì che la crisi non sia sterile, ma possa svolgere fino in fondo il suo compito, traghettandoci
verso una maggiore maturità e una vita più ricca di possibilità e benessere. Sì, possibilità e benessere.
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