“La parola è un atto a due facce. E' determinata ugualmente dal di chi è
la parola e per chi è intesa. Una parola è un ponte gettato tra me e l'altro.
Se un'estremità del ponte dipende da me, allora l'altra dipende dal mio
destinatario. Una parola è un territorio in comune fra il parlante e il suo
interlocutore” (Bachtin, 1976, p.159).
La parola è un ponte gettato tra me e l’altro, un atto che dipende
tanto da me quanto dalla persona cui mi rivolgo. Questo è per me il cuore della
comunicazione, ho letto queste parole di Bachtin per la prima volta a 22 anni e da allora
mi sono rimaste dentro, tanto che quando mi sono laureata nel lontano 2005 ho
scelto come relatore il professore Carlo Galimberti, da cui le avevo sentite a lezione per la prima
volta.
Nei corsi di comunicazione efficace a volte si parla quasi esclusivamente
di tecniche, di “trucchi” per gestire le obiezioni, di modi per conoscere e sfruttare
i silenzi e di come usare l’ascolto dell’altro a favore dei nostri scopi. Quando
ciò accade si perde di vista l’essenza della comunicazione, che è
per sua natura scambio e reciprocità. E questa sua natura si afferma anche e soprattutto quando l’altro non ci sta, “fa
orecchie da mercante” rispetto a quanto gli diciamo o chiediamo: la non
collaborazione dell’altro è il suo modo di comunicare con noi e ci mostra molto
chiaramente che non siamo onnipotenti e che se l’altro non ci sta, non possiamo
imporci. Questo perché non basta che io costruisca il mio messaggio nel modo
più chiaro e pulito possibile, veicolandolo coi registri paraverbali e non
verbali più adatti (tono, volume di voce, sguardo e postura “giusti”, fermi e
accoglienti allo stesso tempo), occorre tener conto dell’altro e della sua
assoluta libertà rispetto al come sceglierà di reagire a quanto gli dico: “un’estremità del ponte dipende da me,
l’altra dipende dal mio destinario” ribadisce Bachtin.
Prima di pensare a come comunicare meglio possiamo fare molto per la qualità della nostra comunicazione ripartendo da qui: dal riconoscere che siamo sempre un io e un tu in relazione.
Non siamo onnipotenti, l’illusione di poter controllare quanto
avviene nello scambio con l’altro è destinata a cadere - e per fortuna, altrimenti dove sarebbe la sorpresa di incontrare qualcuno per davvero? Crolla l'illusione, viene riconosciuto il ruolo di entrambe le parti dialoganti, che ci si riesca a capire o che si fallisca, che si trovi un accordo o meno: la responsabilità è sempre di
entrambi gli interlocutori, mai solo di una parte. Chiunque – se riflette sulla propria vita di
relazione – sa bene che è così che stanno le cose.
Ognuno è
responsabile sempre e solo del proprio pezzo di ponte. Questo
ci spoglia dell’illusione di poter convincere l’altro, sradica l’idea di “poter
far capire all’altro che…”, mentre restituisce all’altro la piena sovranità di
sé stesso: di fatto non facciamo altro
che tornare alla realtà, possiamo constatare che non abbiamo convinto l’altro,
abbiamo fatto del nostro meglio e l’altro ha scelto di seguirci, “si è
convinto”.
Perdere l’onnipotenza può suonare sgradevole… cerchiamo ora di starci
dentro un po’ più a lungo… proviamo a dirci che a noi spetta costruire al
meglio la nostra parte di ponte e solo quella, così come all’altro spetta di
decidere cosa fare del suo pezzo di ponte… respiriamoci dentro… chissà, forse la
musica sta cambiando e il tutto ci inizia a sembrare tanto vero quanto liberatorio.
Magari ci arrivano pensieri sparsi del tipo “allora non è colpa
mia se l’altro non… “allora non dipende
tutto da me…”, “allora anche l’altro deve fare la sua parte… non è tutto sulle
mie spalle”. Sì è proprio così, il peso
e la meraviglia della comunicazione sono sulle spalle di entrambi, di chi parla e di chi ascolta, mittente e destinatario.
L’altro ha un’importanza sostanziale nella comunicazione, persino
negli scambi più semplici non c’è nulla di scontato.
A volte
pensiamo di dover prescindere dall’altro “perché tanto lui/lei non mi
risponderà, non c’è o non c’è mai stato” o “perché tanto non ci so fare con la
gente, meglio non provare nemmeno a farmi capire, meglio rinunciare a cercare
di capire chi ho davanti”, altre volte
pensiamo di poter bypassare il nostro interlocutore, crediamo di poter fare il
nostro ponte da soli, prevedere tutte le mosse dell’altro “perché so già come la pensa”. In quel momento
decidiamo di non stare in relazione fino in fondo, non ci lasciamo incuriosire e non riconosciamo chi abbiamo di fronte
come davvero altro da noi.
Anche l’empatia può diventare una trappola, quando confondiamo il
nostro risuonare con le emozioni dell’altro col capire cosa prova o sente esattamente lui o lei. Provare empatia ci avvicina all’altro, ma
non ci consente di fare un balzo oltre le differenze, ci aiuta a fare il
nostro pezzo della comunicazione al meglio, ciò non toglie che l’altro resta l’altro per quanto io
possa emozionarmi con lui/lei, sentire e stare profondamente con lui/lei.
Se iniziamo a bypassare l’altro ci chiudiamo in un mondo di
proiezioni in cui crediamo di comunicare, ma di fatto facciamo tutto da soli,
l’altro c’è ma noi non ne teniamo conto e preferiamo confrontarci con la nostra
idea di lui/lei, i nostri pregiudizi su come ragiona secondo noi, su cosa farà
dopo ecc.
Cominciamo
a parlare meno, a confrontarci meno con l’altro in carne e ossa, mentre iniziamo
a spendere le nostre risorse nella produzione di previsioni complesse riguardo
cosa farà l’altro se io faccio così, e cosa risponderò in quel caso, e allora
cosa accadrà ecc. Sviluppiamo diagrammi di flusso sul nostro
rapporto con quella persona anziché stare in relazione con lei e spesso ci
rimaniamo ingarbugliati dentro: comunicare con l’altro diventa giocare
a scacchi. L’altro c’è ma è solo una minaccia – può fare scacco matto al
mio re – occorre io mi difenda e per farlo non si può dialogare, c’è da
prevedere mosse e contromosse, agire poco e in modo ponderato, la posta in
gioco è la vita del mio regno. A scacchi occorre essere lungimiranti e
calcolatori, le mosse dirette non premiano. Prima di fare la propria mossa c’è tutto il
tempo di sentire la paura di sbagliare, di perdere un pezzo che conta, una
torre o un fante o di peggio. A ogni mossa rischio di perdere qualcosa di mio,
allora sì che rapportarmi all’altro diventa difficile.
L’immagine degli scacchi arriva da una seduta con una persona a me cara, un tempo mia paziente: la sua idea di fondo all’inizio del percorso con me era “che fatica stare in relazione, nel rapporto con l’altro deve andare tutto bene perché mi deve confermare nel mio valore, allora non posso sbagliare nulla, devo dire la cosa giusta nel momento giusto. Se ciò non accade, allora non c’è rimedio. E’ colpa mia, l’altro è perso e mi giudicherà.” E allora le occorreva pensare, prevedere, ipotizzare, l’ansia cresceva fino a paralizzarla, su quella scacchiera perdeva un pezzo dopo l’altro mentre saltava spesso il suo turno di gioco non decidendosi in tempo a muovere cosa.
Ricordo le avevo parlato di Lodge, della sua visione di comunicazione umana come giocare a tennis anziché a scacchi, consapevoli di farlo con una pallina molto particolare: “La conversazione è come giocare a tennis con una palla fatta di gomma semiliquida, che ha una forma diversa ogni volta che attraversa la rete”, perché “Quando mi dici qualcosa, io verifico di aver compreso il tuo messaggio ripetendolo con parole mie, perchè se lo ripetessi con le tue parole tu potresti dubitare che io abbia capito. Ma se uso le mie parole il risultato è che cambio il tuo significato, anche se solo di poco…”, tu rimani altro da me, non posso leggerti la mente, entrare così profondamente nel tuo significato, per quanto attento ti rimanderò una pallina sempre un po’ deformata. Di buono c’è che con questa consapevolezza di passaggio in passaggio ci possiamo avvicinare a una buona compresione reciproca, seppure mai perfetta. E questo vale per tutto, anche per le conversazioni più semplici e banali.
Un esempio
pratico? Ricordo un pomeriggio in studio ad agosto, seminterrato senza
aria condizionata, la paziente delle 16
si accomoda davanti a me e mi dice “che caldo che fa!”, io le rispondo “vuoi che apro la finestra?”, lei
replica “no, qui si sta bene, è fuori che fa caldo!”. In questi tre turni di
parola c’è tutto: la persona mi manda un primo messaggio e io ipotizzo mi stia
chiedendo di rinfrescare la stanza, la sua risposta (il terzo turno di parola)
mi fa capire che la persona stava al contrario apprezzando la temperatura dello
studio (un po’ meno caldo del clima in strada).
Un altro
esempio? Coppia in stazione a Porta Garibaldi (Milano), lui “come è
pesante la tua valigia”, lei “la porti sempre tu, dai ora la porto un po’ io”,
lui replica “No, no, più che altro tua mamma ti doveva dare proprio tutte
quelle conserve di marmellata?”. Lei credeva il compagno si lamentasse del peso
e le chiedesse aiuto per quello, poi emerge dalla risposta di lui che il punto é
in realtà la suocera, il come si chiarirà trai due più avanti, nel proseguire dello
scambio.
Lasciando la stazione e tornando alla mia paziente, per lei è stato
potente riscoprire la comunicazione come
giocare a tennis con una pallina deformabile, dove ciò che premia è stare nel flusso del gioco, agire in modo
diretto, stando in contatto con sé stessi e con l’altro, turno dopo turno: stare
in questa metafora ci dà leggerezza, se sbagliamo non perdiamo un pezzo di noi
(alfiere o pedone che sia), possiamo realizzare che è davvero normale non
capirsi subito e, a volte, anche dopo molti passaggi.
La
comunicazione quando funziona è un processo co-costruito in cui io faccio il
mio e tu fai il tuo e ci “passiamo la palla” più volte finché non ci siamo
avvicinati abbastanza a ciò che ognuno vuole comunicare all’altro. Occorre pazienza,
senso del limite, curiosità e voglia di mettersi in gioco. E se non ci
capiamo possiamo solo rivedere il nostro pezzo, modificare quello e vedere cosa
se ne fa l’altro, la responsabilità del
successo o meno della comunicazione è di entrambi gli interlocutori, mentre non
c’è colpa né merito solo individuale. Meno
onnipotenti, ma anche meno colpevoli, più leggeri e consapevoli. Inoltre,
quando smettiamo di lamentarci/sentirci in colpa per il pezzo di ponte che l’altro
non fa/fa male secondo noi possiamo iniziare davvero a fare qualcosa per la
nostra parte di ponte, col risultato che rinunciando all’onnipotenza e
assumendoci la responsabilità solo di cosa facciamo noi iniziamo in realtà a
essere molto più efficaci nel rapporto con l’altro. E arriviamo a quella comunicazione efficace da cui siamo
partiti, ma in modo assolutamente nuovo e con delle sfumature di senso molto
più fertili di relazione.