Trenta secondi. Giusto il tempo di accomodarsi sulla
sedia e la persona di fronte a me, al suo primissimo colloquio, mi dice:
"ho bisogno d'aiuto, ma non voglio dipendere!".
Ottimo - ho pensato - perchè un aiuto che si configuri davvero come tale mira casomai all'emancipazione, si costruisce come accompagnamento e supporto verso un'autonomia più piena e completa, lontana sia dalla schiavitù degli eventuali sintomi, sia dai consigli altrui (chiunque sia l'altro che li dispensa) a favore della riscoperta della propria saggezza personale. Chiedere aiuto è una scelta saggia, spesso coraggiosa, ed è diverso sia dal dipendere, sia dal manipolare gli altri: chiediamo aiuto in modo sano quando chiediamo all'altro di accompagnarci in un viaggio difficile, standoci accanto, non facendo il viaggio al posto nostro, questo è un chiedere aiuto che permette di crescere ed evolvere come persone, affinando le nostre capacità e riscoprendole mano a mano.
Di recente ho riletto un libro di Fritz Perls cui sono particolarmente affezionata. L'ho aperto su una pagina a caso e mi é sbocciata tra le mani una frase su come il malessere riguarda "qualsiasi uomo che usa il suo potenziale per manipolare gli altri invece di crescere egli stesso (…) e mobilizza amici e parenti in luoghi in cui è incapace di usare le proprie risorse” (p. 31).
Un'ottima descrizione di ciò che non è il chiedere sano e di tutto ciò che é il chiedere manipolatorio.
A volte di fronte ai problemi iniziamo a puntellarci agli altri più del necessario, ci spremiamo le meningi su come farci aiutare e su come farci capire, ci aspettiamo che i nostri cari ci salvino dalle nostre difficoltà, a volte anche da noi stessi. Scivoliamo nel far dipendere il nostro benessere dalla risposta degli altri, dal loro esserci o meno per noi, e pretendiamo anche che ci aiutino come diciamo noi: gli altri diventano spaventosamente importanti e, allo stesso tempo, stranamente meno a fuoco, ci incuriosiscono meno, li vediamo troppo per quello che possono fare per noi. Dimenticate le nostre risorse assopite, perdiamo il senso più intimo e sano della nostra prima richiesta d’aiuto: quel “aiutami ad attraversare la strada”, detto con la speranza di superare assieme all’altro le nostre paure è diventato “io non posso attraversare la strada senza di te”: l’altro rischia di diventare “chi mi serve per attraversare la strada”, qualcuno giudicato “buono o cattivo” a seconda della sua disponibilità o meno a stare alla nostra richiesta. In sordina abbiamo rinunciato a scoprire la nostra unica e personale capacità di farcela.
Ottimo - ho pensato - perchè un aiuto che si configuri davvero come tale mira casomai all'emancipazione, si costruisce come accompagnamento e supporto verso un'autonomia più piena e completa, lontana sia dalla schiavitù degli eventuali sintomi, sia dai consigli altrui (chiunque sia l'altro che li dispensa) a favore della riscoperta della propria saggezza personale. Chiedere aiuto è una scelta saggia, spesso coraggiosa, ed è diverso sia dal dipendere, sia dal manipolare gli altri: chiediamo aiuto in modo sano quando chiediamo all'altro di accompagnarci in un viaggio difficile, standoci accanto, non facendo il viaggio al posto nostro, questo è un chiedere aiuto che permette di crescere ed evolvere come persone, affinando le nostre capacità e riscoprendole mano a mano.
Di recente ho riletto un libro di Fritz Perls cui sono particolarmente affezionata. L'ho aperto su una pagina a caso e mi é sbocciata tra le mani una frase su come il malessere riguarda "qualsiasi uomo che usa il suo potenziale per manipolare gli altri invece di crescere egli stesso (…) e mobilizza amici e parenti in luoghi in cui è incapace di usare le proprie risorse” (p. 31).
Un'ottima descrizione di ciò che non è il chiedere sano e di tutto ciò che é il chiedere manipolatorio.
A volte di fronte ai problemi iniziamo a puntellarci agli altri più del necessario, ci spremiamo le meningi su come farci aiutare e su come farci capire, ci aspettiamo che i nostri cari ci salvino dalle nostre difficoltà, a volte anche da noi stessi. Scivoliamo nel far dipendere il nostro benessere dalla risposta degli altri, dal loro esserci o meno per noi, e pretendiamo anche che ci aiutino come diciamo noi: gli altri diventano spaventosamente importanti e, allo stesso tempo, stranamente meno a fuoco, ci incuriosiscono meno, li vediamo troppo per quello che possono fare per noi. Dimenticate le nostre risorse assopite, perdiamo il senso più intimo e sano della nostra prima richiesta d’aiuto: quel “aiutami ad attraversare la strada”, detto con la speranza di superare assieme all’altro le nostre paure è diventato “io non posso attraversare la strada senza di te”: l’altro rischia di diventare “chi mi serve per attraversare la strada”, qualcuno giudicato “buono o cattivo” a seconda della sua disponibilità o meno a stare alla nostra richiesta. In sordina abbiamo rinunciato a scoprire la nostra unica e personale capacità di farcela.
Il rischio è
dimenticarci degli altri come soggetti e dimenticarci di noi, delle nostre
risorse e responsabilità. Puntare tutto sugli altri ci toglie potere sulla nostra vita e ci toglie anche
il sapore di un vero incontro con l’altro, un incontro vivificante possibile
anche quando siamo nel dolore e, in quei momenti, anzi, ancora più prezioso. E
un vero aiuto passa sempre da un vero incontro con l'altro.
Rileggo la
frase di Perls e noto che ogni volta ha
un suono nuovo.
Quante volte facciamo richieste manipolatorie alla ricerca di conferme?
Quante volte facciamo richieste manipolatorie alla ricerca di conferme?
Ricordo la ragazza di un vecchio spot televisivo: stava per ore al telefono tormentando l'innamorato con le famose domande "ma mi ami? ma quanto mi ami? ma mi pensi? ma quanto mi pensi?, false domande perchè ne conosceva già la risposta, eppure cercava la stessa risposta a oltranza, assetata di conferme provenienti dall'esterno. E questa è solo una piccola blanda manipolazione. Spesso siamo a
caccia di un'accettazione totale, indiscriminata e piena di calore che noi per primi non ci concediamo e proprio per questo
cerchiamo fuori, tra l’altro in modo ambivalente, cercando e rifiutando la
dipendenza dagli altri e dalle loro opinioni: “Non mi interessa cosa ne pensi!”, gridiamo, ma in realtà spesso l’altro conta anche troppo, soprattutto quando diamo poco credito a noi stessi.
Quante volte
facciamo di tutto pur di evitare di fare davvero qualcosa?
A volte
scegliamo di tenerci il nostro malessere, preferiamo continuare a lamentarci e continuare a non vedere le possibili soluzioni, forse perchè le sentiamo troppo faticose: ci teniamo la nostra nevrosi anziché estirparla alle
radici. Scrivo "estirpare" e penso a una piantina di garofano che ho comprata mesi fa: vivacchia a fatica in un
piccolo vaso, ma non posso trapiantarla in giardino finché
non creo il giusto spazio per lei estirpando le erbacce e preparando il terreno.
Se stesse alla pianta decidere di andare o no nel giardino e avesse sempre lei il potere e l'onere di preparare il terreno al suo arrivo, direi che questo garofano con la sua "paura di mettere radici" e il suo faticoso stare "aggrappato a qualcosa che lo rassicura e lo limita allo stesso tempo" (il suo vaso) mi ricorda una persona in difficoltà. Potrebbe essere, per esempio, una persona che fa fatica a definirsi, perchè in fondo non accetta i limiti e le responsabilità sottese a ogni scelta, e allora tiene dolorosamente il piede in più scarpe, magari é sia un marito che un amante, così da non essere mai davvero al suo posto, sempre altrove. Una persona-pianta che soffre le ristrettezze del vaso, ma che piuttosto che fare una scelta definitiva come mettere radici in un giardino preferisce stare in un vaso-sempre-spostabile.
Se stesse alla pianta decidere di andare o no nel giardino e avesse sempre lei il potere e l'onere di preparare il terreno al suo arrivo, direi che questo garofano con la sua "paura di mettere radici" e il suo faticoso stare "aggrappato a qualcosa che lo rassicura e lo limita allo stesso tempo" (il suo vaso) mi ricorda una persona in difficoltà. Potrebbe essere, per esempio, una persona che fa fatica a definirsi, perchè in fondo non accetta i limiti e le responsabilità sottese a ogni scelta, e allora tiene dolorosamente il piede in più scarpe, magari é sia un marito che un amante, così da non essere mai davvero al suo posto, sempre altrove. Una persona-pianta che soffre le ristrettezze del vaso, ma che piuttosto che fare una scelta definitiva come mettere radici in un giardino preferisce stare in un vaso-sempre-spostabile.
Scegliere di
non estirpare la propria nevrosi è un po’ come continuare a tenere il piede in
due scarpe. Non occorre una vita affettiva complicata per stare male,
basta restare in conflitto con sè stessi, coi nostri “voglio” e
"non voglio", tirare avanti vivacchiando in un vaso troppo stretto: un tipo di vivere in cui manipoliamo gli altri e, prima ancora, noi stessi per convincerci che in fondo va bene così.
L’invito
nascosto nelle parole di Perls è quello di smettere di manipolare gli altri
e sé stessi, smettere di non accettarci a fondo e, quindi, di non accettare a
fondo gli altri, scegliendo di correre il rischio di fare qualcosa fino in
fondo, per esempio definirci davvero, separandoci da qualcosa e appartenendo a
qualcos'altro in modo pieno, per esempio a un progetto di coppia o a un progetto lavorativo.
Il primo passo
per smettere di fare qualcosa è capire bene come la facciamo: in cosa ci
manipoliamo e come lo facciamo? quando manipoliamo gli altri e come?
Una volta
divenuti pienamente consapevoli del nostro personale modo di manipolare, il
secondo passo è introdurre qualcosa di nuovo: iniziare a fare qualcosa
di diverso corrisponde a sradicare le erbacce, è un processo difficile ma che
vale la pena intraprendere, se occorre accompagnati da un professionista,
un processo che implica assumerci la responsabilità della nostra vita facendo
delle scelte piene. Non accontentarci di vivacchiare-in-un-vaso per diventare,
invece, pienamente ciò che siamo.